Tutela della privacy e diritto di cronaca

Uno degli aspetti più interessanti del diritto alla privacy è il rapporto fra le vicende personali e i fatti che abbiano suscitato un grande interesse nella collettività[1].

Il rapporto tra riservatezza e cronaca si è posto, sin dall’inizio, in termini fortemente conflittuali, rispondendo i due diritti in questione ad esigenze umane e sociali contrapposte. Da una parte, la volontà del singolo individuo di non far conoscere informazioni che lo riguardano o di farle conoscere alle proprie condizioni, dall’altra l’interesse della collettività alla più ampia circolazione di notizie, nonché la volontà di un altro soggetto di poter manifestare liberamente il proprio pensiero sui fatti, che accadono nella società in cui vive.

La dottrina prevalente e la giurisprudenza della Corte costituzionale hanno concluso, sul punto, sottolineando che la libertà di manifestazione del pensiero corrisponde alla “libertà di dare e divulgare notizie, opinioni commenti”[2], con la conseguenza che l’art. 21 garantisce anche il diritto di cronaca.

Il diritto di cronaca, così come è stato definito dalla giurisprudenza prevalente della Corte di Cassazione, consiste nel diritto di raccontare i fatti per come accadono. Tale diritto deriva direttamente dall’articolo 21 della Costituzione italiana.

Per diritto di cronaca, si intende non soltanto la facoltà per i giornalisti di comunicare, a mezzo articoli, avvenimenti storicamente verificatisi e meritevoli di essere conosciuti dalla pubblica opinione, ma anche la possibilità, garantita a tutti, di riferire ad altri vicende accadute.

La giurisprudenza e la dottrina prevalenti, nel delineare questo diritto insopprimibile, ne hanno individuato i limiti: in particolare, i limiti del diritto di cronaca, a cui rinvia tale articolo, sono stati individuati, in due famose sentenze della Corte di Cassazione: una civile del 18 ottobre 1984, n. 5259 (nota anche come il c.d. Decalogo del giornalista[3]), l’altra penale del 30 giugno 1984, n. 8959.

Il rapporto tra diritto alla privacy e diritto di cronaca non è di semplice definizione, in quanto vanno definiti i limiti dell’uno per poter tracciare il raggio d’azione dell’altro. Non sono contrastanti in sé e per sé, ma operano entro confini distinguibili.

Le condizioni per l’esercizio del diritto di cronaca sono stati tracciati dalla Corte di Cassazione con le sentenze sopra citate; con esse la Corte stabilisce quali sono le condizioni per l’esercizio del diritto di cronaca: in primo luogo la libertà d’informazione deve perseguire un’utilità sociale, i fatti divulgati devono corrispondere al vero o comunque il soggetto che li diffonde deve valutarli, a seguito di un serio e diligente lavoro di ricerca, come veri, in ultimo è necessaria che vi sia una forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione[4]: non ricorre quest’ultima condizione quando la critica è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, difetta di serenità e di obiettività, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ed infine non è improntata a leale chiarezza[5].

La dove la notizia rispetti questi canoni riteniamo che non vi sia motivo di conflitto con il diritto alla privacy. Infatti, tornando all’analisi della definizione di diritto alla vita privata, emerge subito che oggetto della protezione di quest’istituto è la sfera privata della persona, intesa come quell’insieme di azioni, comportamenti, opinioni, preferenze, informazioni personali su cui l’interessato vuole mantenere il controllo esclusivo, aspetti della sfera dell’individuo che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, non rientrano tra quei fatti che possono essere oggetto di notizia in quanto non sono d’interesse pubblico. Infatti contenuto del diritto di cronaca possono essere solo quei fatti che pur essendo pertinenti ad un determinato soggetto, hanno una qualche rilevanza sociale[6], cioè devono appartenere alla sfera pubblica del soggetto. Quest’ultima è caratterizzata da tutto ciò che attiene alla vita generale dell’ordinamento ed al relativo necessario controllo democratico; in particolare, se l’ordinamento riconosce un certo bene o capacità o legittimazione al singolo, non è irragionevole pensare che tutto ciò che viene fatto nell’esercizio di queste posizioni, non assume carattere di pubblico interesse, tuttavia, se dispiegasse effetti riflessi e consistenti per i terzi e per le loro aspettative, rientrerebbe nell’ambito della sfera pubblica e quindi potrebbe essere oggetto di notizia. Rientra, inoltre, nella sfera del pubblico interesse tutto ciò che viene volontariamente[7] offerto alla pubblica attenzione[8].

Nonostante i parametri fissati dalla giurisprudenza al fine di bilanciare l’esigenza di tutela dei due diritti in questione, i media hanno spesso saputo sottrarsi ad ogni limitazione; in particolare, hanno aggirato il limite dell’interesse pubblico della notizia, facendo rientrare nella nozione di pubblico interesse la semplice curiosità degli acquirenti dell’informazione[9].

Un importante strumento, per “contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa[10]”, è stato previsto dall’art. 25 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, come modificato dall’art. 12 del decreto legislativo 13 maggio 1998, n 171, che ha previsto che “il trattamento dei dati personali nell’esercizio della professione giornalistica deve essere effettuato sulla base di un apposito codice di deontologia, recante misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportati alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”[11].

Il codice di deontologia dei giornalisti, che è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale in data 29 luglio 1998, mira a regolamentare l’attività giornalistica, ponendo dei limiti a difesa della tutela della vita privata; in particolare il primo comma dell’art. 1 stabilisce le finalità del codice[12], affermando che lo scopo della presente normativa è diretta a contemperare l’esigenze dell’informazioni con quelle della tutela della vita privata; particolare rilievo ricopre l’art. 6, in quanto prevede il canone dell’essenzialità dell’informazione[13], come limite al diritto di cronaca[14].

Con l’articolo 8 invece si vuole proteggere la dignità delle persone, impedendo al giornalista di fornire notizie o pubblicare immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né di soffermarsi su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. Avv. Maurizio Oppedisano [1] A. MANTELERO, Il diritto alla riservatezza nella l. n. 675 del 1996: il nuovo che viene dal passato, in rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2000, fasc. 3, p. 973 [2] Cfr. la sentenza della Corte costituzionale del 15 giugno 1972, n. 105. [3] Estratto della sentenza della Corte Cass. I civ. 18 ottobre 1984, n. 5259: ”Ciò posto, va ricordato che – come ormai la giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto occasione di precisare, sia in sede civile che penale – il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) sancito in linea di principio nell’art. 21 Cost. e regolato fondamentalmente nella l. 8 febbraio 1948 n. 47, è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti”. [4] Cfr. la sentenza della Corte Cass. sez I civ. 18 ottobre 1984, n. 5259. [5] La stessa Corte di Cassazione, nella sent. sopra citata, afferma che lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista ricorre ad una delle seguenti subdole tecniche: 1) al sottinteso sapiente, che consiste nell’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori le intenderà o in maniera diversa o, addirittura, contraria al loro significato letterale, e, comunque, in senso fortemente sfavorevole ed offensivo nei confronti della persona che si vuole mettere in cattiva luce. Un esempio è rappresentato dal racchiudere determinate parole tra virgolette, allo scopo di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque, sono da interpretarsi in un senso molto diverso da quello che avrebbero senza virgolette; 2) agli accostamenti suggestionanti di fatti che si riferiscono alla persona che si vuole mettere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma sempre in qualche modo negativi per la reputazione) riguardanti altre persone estranee, oppure con giudizi negativi apparentemente espressi in forma generale ed astratta e, come tali, ineccepibili ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce, inevitabilmente, a persone ben determinate; 3) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli, o, comunque, all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie “neutre” allo scopo di indurre i lettori più superficiali a lasciarsi suggestionare soltanto dal tono usato (classico, a tal fine, è l’uso del punto esclamativo anche là dove, di solito, non viene messo); 4) alle vere e proprie insinuazioni, che ricorrono quando, pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda lo stesso in considerazione a tutto svantaggio della reputazione di un determinato soggetto. [6] Cfr. una pronuncia del Pretore di Roma, del 25 gennaio 1979. nel in questione la Rai ha trasmesso uno sceneggiato in cui sono state revocate le vicende del “delitto Paternò”, in cui venne uccisa Giulia Trigona; la figlia dei coniugi Trigona ha agito in giudizio a tutela del diritto alla riservatezza dei genitori e della propria immagine. Il pretore di Roma, nel caso in questione, ha negato l’esistenza del diritto alla riservatezza quando vengono rievocati fatti assai conosciuti nel periodo in cui si sono verificati ed oggetto d’interesse pubblico, tali da essere ‘interesse storici ed emblematici di un’epoca. Il pretore ha individuato i fatti che sono stati i criteri per per ammettere la legittimità di molte rievocazioni storiche: la notorietà degli eventi, l’interesse storico, l’attenzione della collettività nell’epoca in cui sono accadute. [7] Non viola i limiti al diritto di cronaca posti a tutela della privacy la diffusione su di un organo di stampa di circostanze, notizie e dati già resi noti dall’interessato attraverso “lettere aperte” inviate ad una pluralità indeterminata di soggetti. E’ quanto affermato dal Garante in un provvedimento con cui è stata dichiarata la manifesta infondatezza di un ricorso presentato da un ricercatore universitario (Newsletter – 28 giugno 1999, in www.garanteprivacy.it) [8] A. BEVERE e A. CERRI, Il diritto d’informazione e i diritti della persona, Milano, Giuffrè, 1995, pp. 53 s. [9] A. CLEMENTE, Privacy, CEDAM, Padova, 1999, p. 4. [10] Cfr. il primo comma dell’art. 1 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica ai sensi dell’art. 25 della legge 31 dicembre 1996, n. 675. [11] S. RODOTA’, Preambolo del provvedimento 29 luglio 1998 relativo al codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica ai sensi dell’art. 25 della legge 31 dicembre 1996, n. 675 , in http://www.garanteprivacy.it/garante [12] Così recita l’art. 1: “Le presenti norme sono volte a contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa”. [13] Lo stesso articolo pone dei paletti all’”aggressione” alla vita privata delle persone note, stabilendo al secondo comma che “La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica” [14] Tra le pronunce del Garante, ricordiamo una in cui ha accolto il ricorso di una persona che aveva lamentato la violazione della sua privacy da parte di un quotidiano. In occasione di una vicenda giudiziaria relativa ad un proprio congiunto, il quotidiano aveva fatto riferimento alle condizioni di salute dell’interessato. Tale riferimento, pur senza l’indicazione di precisi dati identificativi, aveva consentito di individuare l’interessato in quanto lo stesso era stato indicato come “suocero” della persona citata con precisione nell’articolo. Il ricorrente aveva perciò chiesto al Garante di intervenire ordinando il blocco dei dati. Il Garante ha ritenuto fondato il ricorso perché la citazione della specifica patologia da cui era stato affetto il ricorrente è risultata eccedente rispetto all’esigenza di voler informare sulla vicenda in questione. Lo stesso scopo si sarebbe, infatti, potuto ottenere attraverso riferimenti più generici che nulla avrebbero tolto al valore della notizia (parlando, ad esempio, di “particolari condizioni di salute di un congiunto”).

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