Il Tribunale di Ferrara e la malpractice medica dopo la legge Gelli-Bianco

Una recente sentenza del Tribunale di Ferrara del 22.03.18 si è pronunciata su un caso di responsabilità professionale medica. È stata l’occasione, per l’organo giudicante, di fare il punto sul tema caldo della malpractice in ambito sanitario,  alla luce dei recenti interventi normativi e in particolare della legge Gelli-Bianco del 2017.

Trattavasi di una vicenda in cui la vittima aveva agito in giudizio per vedersi risarcire il danno causato, a suo dire, da un intervento chirurgico eseguito nel 2011 e consistente in una biopsia effettuata nella regione sottomandibolare dov’era allocata una tumefazione apparentemente riconducibile a un linfonodo. Secondo la prospettazione attorea, nei giorni successivi all’intervento chirurgico, il paziente aveva avvertito un forte dolore nella parte sinistra della mandibola accorgendosi di non riuscire a mantenere in bocca i liquidi che cercava di bere.

La struttura convenuta si era difesa affermando che la natura della responsabilità ad essa, per ipotesi, addebitatale non poteva ritenersi di carattere contrattuale, ma semmai di natura extracontrattuale. Il giudice ha fatto subito piazza pulita di tale eccezione, affermando essere ormai pacifica acquisizione giurisprudenziale la circostanza per cui l’accoglimento di un paziente in una struttura ospedaliera configura, di fatto,  la stipula di un contratto cosiddetto ‘di spedalità’ tra il paziente è l’ente ospedaliero (vedi Cassazione 23.918 del 2006, 11.297 del 2004, 11.316 del 2003).

Tale contratto di spedalità comporta, ovviamente, l’applicazione a beneficio del paziente della disciplina della responsabilità contrattuale con la conseguenza che la responsabilità dell’ente è configurabile ai sensi dell’articolo 1218 del codice civile sull’inadempimento dell’obbligazione e dell’art. 1228 sull’inadempimento dei sanitari dipendenti della struttura. Neppure è stata accolta la tesi dell’azienda secondo cui, in ossequio al decreto Balduzzi 2012, la responsabilità avrebbe dovuto essere ascritta al rango di quella aquiliana. Infatti, l’articolo 3 del decreto in questione si era limitato, in allora, a prevedere che l’esercente della professione sanitaria (il quale si fosse attenuto a line guida o a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica) non avrebbe risposto penalmente per colpa lieve, fermo restando l’obbligo di risarcimento di cui all’articolo 2043 del codice civile.

Giustamente il Tribunale di Ferrara ha sottolineato come tale articolo 3 debba ritenersi afferente all’ambito penale e abbia il significato di escludere che l’assoluzione penale del medico (per una condotta connotata da colpa lieve) possa comportare una sua liberazione dalla pretesa risarcitoria della vittima.

Alla luce di quanto sopra, e perlomeno fino all’entrata in vigore della riforma Gelli-Bianco, la responsabilità contrattuale del professionista deve senz’altro considerarsi di natura contrattuale in applicazione della figura negoziale di creazione giurisprudenziale del contratto da ‘contatto sociale’.

Peraltro, in materia e come anzidetto, è intervenuta la legge numero 24 del 2017 il cui articolo 7 stabilisce che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria –  anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa – risponde ai sensi dell’art. 1228  del codice civile delle loro condotta dolosa o colposa.

Ne deriva che, nel caso sottoposto al vaglio dalla corte ferrarese, la struttura sanitaria doveva fornire la prova di aver eseguito correttamente l’intervento della biopsia, id est la dimostrazione della propria assenza di colpa nonchè del fatto che la lesione non era dipesa da una manovra non corretta del medico, ma da qualche altro fattore. Tale prova, però, nel caso concreto, non era stata fornita in quanto la struttura convenuta non aveva avvalorato in alcun modo, in sede istruttoria, il proprio asserto difensivo; e cioè quello secondo cui il paziente sarebbe stato coinvolto, pochi giorni dopo la biopsia, dallo stesso processo infiammatorio sottomandibolare che aveva portato all’ingrossamento del linfonodo. Senza contare che, dalla diagnosi resa all’atto delle dimissioni, si apprendeva di una regressione quasi completa della tumefazione preesistente.

Ne deriva che la spiegazione più logica della spiacevole ‘disavventura’ occorsa all’attore risiede proprio (e fino a prova contraria, mai pervenuta) nel maldestro intervento chirurgico di biopsia. Tale errore  costituiva una complicanza sì prevedibile, ma anche evitabile attraverso un approccio chirurgico ben eseguito.

Avv. Francesco Carraro

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