Quante tragedie liquidate con i minimi tabellari?

Torniamo a parlare di sofferenza e di diritto e della continua intersezione fra queste due categorie che tanto impegnano i tribunali e le corti, non sempre con risultati condivisibili e attenti alla delicatezza e all’enormità dei problemi di carattere umano, prima ancora che giuridico, ad esse sottesi.

Ce ne offre il destro una sentenza della Corte di Cassazione, la nr. 6477 del 14.03.2017, che ha affrontato un caso limite: la tragedia devastante di un pover’uomo il quale – a causa della sconsiderata condotta di guida di un automobilista in stato di ebbrezza – aveva perso la propria compagna di vita incinta alla trentesima settimana. Dall’incidente derivava la morte della donna e, e di lì a poche ore, anche della figliola pur fatta nascere con parto cesareo d’urgenza.

Allo sventurato veniva riconosciuto – all’esito dei due giudizi, conclusi con sentenza della Corte d’Appello di Venezia – una somma di euro 380.000,00 complessivi, di cui 230.000,00 per il danno non patrimoniale connesso alla morte della compagna e 150.000,00 per il danno non patrimoniale relativo alla morte della figlia.

Il giudice del tribunale, in primo grado, si era rifatto – in sede di liquidazione dell’onnicomprensivo pregiudizio non patrimoniale – alle note tabelle milanesi attenendosi però ai minimi tabellari. In appello, la decisione era stata confermata. L’uomo era ricorso in Cassazione lamentando la circostanza che entrambe le pronunce non avevano in alcun modo motivato una scelta così penalizzante per la vittima.

Le contestazioni del ricorrente si sono rivelate sacrosante e ineccepibili e tali da indurci a meditare su una prassi non commendevole, ma assai diffusa in molte aule di giustizia. Quella seguita da chi – di fronte a tragedie analoghe – si limita a una liquidazione irrisoria per una duplice ragione: da un lato, perché si assesta acriticamente sulla soglia più bassa delle cosiddette “forbici tabellari”; dall’altro, perché tiene in minimo conto le sovente copiose istanze istruttorie formulate dalle parti. Parliamo delle famose ‘memorie difensive’ con le quali gli avvocati tentano di dimostrare un danno necessariamente difficile (ma non impossibile) da provare come quello pertinente alla sfera non patrimoniale e a-reddituale del soggetto leso.

Capita non di rado, purtroppo, che zelanti colleghi imbastiscano pregevoli memorie (corredate da ricchissimi capitolati di prova e financo da nutrita documentazione video-fotografica) nell’intento – giusto e meritevole di plauso – di dar seguito alle raccomandazioni contenute nelle celebri sentenze di San Martino del 2008; quelle riassumibili, e riassunte da più parti, con uno slogan: se vuoi il risarcimento del ‘danno conseguenza’ devi allegare e provare gli assunti su cui la relativa istanza risarcitoria si fonda.

Ebbene, per tutta risposta ci si imbatte troppo spesso in stringate ordinanze che rigettano in tutto, o in gran parte, le istanze istruttorie in virtù di generiche giustificazioni riconducibili alla asserita indimostrabilità di un ‘male’ non comprovabile, né altrimenti desumibile, quale la sofferenza interiore di un individuo.

Si giunge così a un paradossale risultato: in ambito dottrinario, ovvero dai palchi della convegnistica di settore, si esortano gli avvocati a fare il loro mestiere incoraggiandoli a non lesinare gli sforzi nel momento in cui essi debbono descrivere, prima, e dimostrare, poi, lo stravolgimento esistenziale, psicologico e morale di un singolo individuo ovvero del di lui nucleo familiare. Dopodiché, in sede processuale, tutti questi bei discorsi finiscono nel nulla con un tratto di penna o con il clic di un mouse: quello con il quale il giudice ‘cassa’ le richieste istruttorie laboriosamente e faticosamente articolate dal difensore.

Per tutte queste ragioni, la sentenza in commento rappresenta un arresto degno di nota e foriero – auspichiamo – di una inversione di rotta nella ‘gestione’ giudiziaria di casi altamente drammatici come quello di cui si sono occupati, nell’occasione, gli Ermellini.

In questo senso condividiamo per intero, facciamo nostre, e volentieri divulghiamo le seguenti concludenti parole del provvedimento succitato: “Va a questo proposito detto che la motivazione della sentenza di appello può legittimamente condividere integralmente e far propria la valutazione compiuta dal giudice di primo grado ma deve essere in ogni caso percorribile nelle sue premesse, nei criteri di quantificazione adottati e nelle sue conclusioni, per consentire di verificare la coerenza delle premesse con le conclusioni, ed anche la legittimità dei criteri di quantificazione prescelti, nonché che sia avvenuta, e che sia stata eseguita in modo adeguato, in ragione di essi, la personalizzazione del danno.

Nulla di tutto ciò è accaduto nel caso di specie, in cui la corte d’appello si limita a dire al L. che ha subito una grave perdita, e che essa è stata già integralmente risarcita, senza consentire né al danneggiato di avere contezza del perché si arrivi ad un determinato importo piuttosto che ad un altro, e di farsene una ragione, né al giudice di legittimità di poter verificare la coerenza del ragionamento, perché il ragionamento sostanzialmente manca”.

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