Malpractice medica tra problemi tecnici e ‘preponderanza dell’evidenza’

Capita sovente, nelle cause di responsabilità professionale medica, di doversi confrontare con la speciale “esenzione” contemplata dall’art. 2236 c.c.: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.

Essa è compendiabile nei seguenti termini: sono casi implicanti la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà solo quelli che trascendono la preparazione media dell’operatore qualificato o quelli non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica.

Ebbene, la ‘salvezza’ di cui all’art. 2236 c.c. è da intendersi limitata alle ipotesi di imperizia e non ai casi di negligenza e/o imprudenza.

Consolidata giurisprudenza, infatti, insegna: “In tema di responsabilità del medico, la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all’art. 2236, comma 2, c.c. non ricorre con riferimento ai danni causati al paziente per negligenza o imprudenza, ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà trascendenti la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica, incombendo in tal caso al medico di fornirne la relativa prova” (Cassazione civile n. 2042/05; Corte Appello Roma 11/04/06; Cassazione civile n. 2335/01; Cassazione civile n. 5945/00);

Trattando un caso relativo alla distocia di spalla, la Suprema Corte ha stabilito un altro importante principio. Far dipendere la speciale difficoltà dall’alto tasso di esiti negativi della distocia è errato, poiché ciò implicherebbe prendere in considerazione – anziché i mezzi e i metodi attuati dal professionista – l’eventuale e incerto risultato. Vale a dire, un indice (del tutto indeterminato) che non ha nulla a che fare con il concetto di cui trattasi.

La giurisprudenza di legittimità, come anzidetto, ha da tempo individuato in cosa consista la speciale difficoltà dei problemi tecnici, riscontrandola laddove il caso non sia stato in precedenza adeguatamente studiato o sperimentato o quando, nella scienza medica, siano stati discussi sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica diversi e incompatibili tra loro. In presenza di pronunce di merito non conformi a tale indirizzo, i giudici di legittimità non hanno mancato di censurarne i contenuti in quanto le soluzioni accolte mostravano al riguardo un’obbiettiva deficienza di criterio logico nella formazione del convincimento incorrendo quindi nel vizio di motivazione (Cassazione civile n. 10297/04).

Con specifico riguardo al tema paradigmatico della distocia di spalla e al fatto che essa non possa considerarsi un caso involgente la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà vedasi anche la sentenza n. 378/12 del Tribunale di Desio, sezione distaccata del Tribunale di Monza, in cui il Giudice lombardo rilevava: “Nel caso di specie, poi, proprio sulla base di quanto argomentato dal CTU, risulta altresì inapplicabile la limitazione di responsabilità del professionista alle ipotesi di dolo o colpa grave come prevista di cui all’art. 2236, comma 2, c.c. Anche sotto tale profilo l’orientamento giurisprudenziale è oramai univoco: in tema di responsabilità del medico, la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo e colpa grave di cui all’art. 2236, comma 2, c.c. non ricorre con riferimento ai danni causati al paziente per negligenza o imprudenza, ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà trascendenti la preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla medica, incombendo in tal caso al medico di fornirne la relativa prova (Cassazione civile n. 2042/05). Inoltre, qualora venga invocata detta limitazione di responsabilità dal sanitario, incombe al medesimo la prova che la prestazione offerta era di particolare difficoltà. Pare evidente che la complicanza insorta, temuta ma ampiamente studiata e conosciuta, in relazione alla quale sono noti i fattori di rischio e sono suggerite specifiche manovre da porre in essere per risolverla, non possa configurarsi quale “problema tecnico di speciale difficoltà”, né in tal senso è stata offerta alcuna prova da parte convenuta”.

Ciò, si badi bene, indipendentemente dai dati sulla frequenza di tale complicanza, la cui capacità di risoluzione deve necessariamente far parte del bagaglio scientifico richiesto sia ad un ostetrico che ad un medico specializzato ginecologo.

Pertanto, le eventuali contrarie conclusioni – rispetto all’orientamento testé riassunto – cui dovesse pervenire un giudice sarebbero in palese violazione dei principi giurisprudenziali ormai consolidati relativi alla ripartizione dell’onere della prova ex art. 1218 e 2697 c.c. in materia di responsabilità professionale medica nonché del pedissequo corollario costituito dal principio della ‘preponderanza dell’evidenza’.

Come noto, infatti, secondo un indirizzo ormai pacifico, tra il paziente e il medico dipendente si instaura un contratto da “contatto sociale”, il cui inadempimento è sottoposto al regime di cui all’art. 1218 c.c. (Cassazione civile, Sezioni Unite, 11.01.08 n. 577). In ossequio, pertanto, alle norme che disciplinano l’inadempimento contrattuale, ne consegue un’inversione dell’onere della prova a carico del sanitario alla luce del disposto di cui all’art. 1218 c.c. per cui al paziente spetta di allegare l’inesattezza dell’inadempimento, ma non certo la colpa.

In altri termini, spetta ai sanitari dimostrare che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa ai medesimi non imputabile e quindi, in buona sostanza, la loro assenza di colpa. La responsabilità dei sanitari andrà, poi, valutata con riferimento alla diligenza professionale di cui all’art. 1176, comma 2, c.c. (cfr. anche Tribunale Milano, 22.04.09 n. 5322; cfr. anche Cassazione civile n. 10741/09; Cassazione civile n. 10285/09).

Qualora la struttura sanitaria non fornisca la prova della sussistenza di un evento straordinario e imprevedibile atto a giustificare il danno, la sua responsabilità è inconfutabile: “In tema di onere della prova nelle controversie di responsabilità professionale, questa Corte ha più volte enunciato il principio secondo cui quando l’intervento da cui è derivato il danno non è di difficile esecuzione, la dimostrazione da parte del paziente dell’aggravamento della sua situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione” (cfr. Cassazione civile n. 3492/02; Tribunale Milano, 01.04.05, n. 3670).

Né può diversamente opinarsi invocando il principio della “preponderanza dell’evidenza” secondo cui: “I principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e dalla regolarità causale; ciò che differenzia l’accertamento causale in sede penale e in sede civile è la regola probatoria, valendo per il primo il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, mentre, nel secondo, vale il principio della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non” (cfr. ex multis Cassazione civile n. 768/2016; Cassazione civile, Sezioni Unite n. 576/2008).

In virtù del principio surrichiamato, un evento è da ritenersi causato da un dato comportamento quando il suo verificarsi, per effetto di quel comportamento, sia più probabile che non il suo contrario (Cassazione civile, Sez. III, 11 febbraio 2014 n. 3010): “Il regime probatorio applicabile in tema di accertamento del nesso causale in materia civile è governato dalla regola della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’. Ne consegue, quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, che l’attore, ossia il paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o contatto sociale) e l’insorgenza o aggravamento della patologia, allegando altresì l’inadempimento del medico che sia in astratto idoneo a provocare il danno lamentato. Sarà poi il medico a dover dimostrare l’insussistenza di tale inadempimento o la sua irrilevanza eziologica” (Cassazione civile Sezioni Unite n. 576/2008; ex plurimis Cassazione civile, Sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3390; Cassazione civile n. 8989/2015).

Ergo, il giudice civile potrà affermare l’esistenza del nesso causale tra illecito e danno “anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio” (Cassazione civile, sent. 22 ottobre 2013 n. 23933).

Avv. Francesco Carraro – www.avvocatocarraro.it

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