Il vincolo affettivo, nei sinistri mortali, si presume e a nulla rileva la realtà socioeconomica dei danneggiati

Va segnalata una interessante ordinanza della Cassazione (la nr. 3.767 del 2018 – relatore il Dott. Marco Rossetti –  pubblicata il 15 febbraio 2018 con riferimento a una causa civile di risarcimento danni promossa  dai prossimi congiunti di un cittadino rumeno deceduto nel 2008 per effetto di un sinistro stradale.

Gli attori avevano incardinato il giudizio presso il Tribunale di Milano e, successivamente, avevano appellato la sentenza dei giudici meneghini avanti alla Corte d’Appello del capoluogo lombardo. Quest’ultima , da un lato aveva rigettato la domanda proposta dalla madre e dai fratelli della vittima ritenendo non provata una “effettiva compromissione di un rapporto affettivo in essere al momento del fatto”, dall’altro aveva ritenuto che il danno non patrimoniale patito della moglie e dai figli della vittima dovesse essere “ragguagliato alla realtà socioeconomica in cui vivono i soggetti danneggiati” riducendo conseguentemente il risarcimento del 30 per cento.

Gli attori spiegavano opposizione avanti alla Suprema Corte impugnando entrambe le due motivazioni di cui sopra. Per quanto riguarda il primo aspetto, la Corte ha accolto il ricorso ricordando quanto già ripetutamente affermato dai medesimi giudici di legittimità in precedenti occasioni e cioè che “la realtà socio-economica nella quale vive la vittima di un fatto illecito è del tutto irrilevante ai fini della liquidazione del danno aquiliano”. Si erano pronunciate conformemente a questo principio già le sentenze nr. 7.932 del 18 maggio 2012, 12.146 del 14 giugno 2016 e 12.221 del 12 giugno 2015.

È comunque interessante soffermarsi sull’iter logico-argomentativo seguito dalla Suprema Corte per accogliere il ricorso delle vittime secondarie del sinistro di cui ci stiamo occupando. In particolare, essa ha evidenziato che, pur avendo il risarcimento del danno non patrimoniale una funzione compensativa, ciò non implica che il pretium doloris debba essere in funzione della residenza del danneggiato. In proposito, sotto il profilo giuridico è sufficiente richiamare il contenuto dell’articolo 1223 del codice civile. Tale norma statuisce che – nella stima di ogni danno non patrimoniale – si deve tener conto delle “conseguenze” dell’illecito. Ebbene, le conseguenze risarcibili dell’illecito consistono – sottolinea la Corte – nei pregiudizi che la vittima avrebbe potuto evitare se l’evento fatale non si fosse verificato. Ma se è questa la nozione di danno e di “conseguenza”, secondo il nostro ordinamento giuridico, allora il risarcimento che monetizza il danno medesimo non può assolutamente variare in funzione della residenza del danneggiato: in primis, perché il luogo dove la vittima risiede non è, a tutti gli effetti, considerabile alla stregua di una “conseguenza” del fatto illecito (la residenza, infatti, è una circostanza che non “consegue” all’evento, ma semmai lo precede); in secundis, perché –  tra le cosiddette conseguenze del danno – non può certo rientrare l’impiego che la vittima farà del denaro corrisposto dall’offensore.

Inoltre, va anche considerato che un risarcimento non deve necessariamente essere “speso”. Può pure essere tesaurizzato. In quest’ultimo caso, non corrisponde assolutamente al vero il fatto che nei paesi più ricchi il capitale investito sia remunerato più proficuamente che nei paesi più poveri, anzi spesso è l’esatto contrario.

La Corte, poi, si sofferma sugli effetti paradossali che discenderebbero dall’accoglimento della tesi opposta patrocinata, in questo caso, dall’assicurazione che si era costituita per contestare le pretese delle vittime dell’evento lesivo. Tanto per esser chiari, gli Ermellini ricordano come il (censurato) criterio seguito in secondo grado  dovrebbe teoricamente valere anche in bonam partem. Cosicchè il creditore potrebbe, per ipotesi, operare un trasferimento (strumentale) di residenza in paesi dall’elevato reddito pro capite per poi pretendere un risarcimento maggiore in applicazione proprio della regola che la Cassazione intende invece contestare.

Se davvero il risarcimento dovesse variare in ragione del numero e della qualità di beni materiali che (con il medesimo) i creditori potrebbero comprare, allora si potrebbe pervenire all’assurdo e distorsivo effetto per cui, a parità di sofferenza, il risarcimento dovrebbe essere maggiore in periodi storici di inflazione, cioè di rialzo generalizzato dei prezzi, e più modesto in periodi di stagnazione economica.

Neppure pertinente è –  secondo I giudici di legittimità – il richiamo a un precedente arresto della Corte di Cassazione e precisamente alla sentenza nr. 1.637 del 2000. In quel caso, è vero che i giudici di legittimità liquidarono una somma pari a 50 milioni di lire a una donna per la morte del figlio minorenne giustificando l’importo riferendosi proprio alla “realtà socioeconomica” dove si trovava a vivere la danneggiata risarcita. È altrettanto vero, però, che la motivazione di quella sentenza della Suprema Corte era nel senso che il luogo di residenza del danneggiato può venire in rilievo solo per aumentare il risarcimento e non per ridurlo!

Infine, la Corte contesta anche l’assunto della compagnia di assicurazione secondo cui liquidare a dei cittadini rumeni che vivono in Romania un risarcimento pari a quello che verrebbe, in consimili casi, riconosciuto a cittadini italiani “costituirebbe una burla per gli italiani perché si concederebbe tutto agli stranieri e niente, nella condizione inversa viene dato agli italiani”. La Cassazione ha stroncato in poche righe il singolare argomento dell’assicurazione convenuta ricordando come ogni ordinamento giuridico sia superiorem non recognoscens cioè tale da non riconoscere, sopra di sé, nessun’altra fonte di diritto. Ergo, la misura del risarcimento in Italia non può certo essere condizionato dall’importo che sarebbe attribuito, in un giudizio analogo, in paesi diversi dall’Italia. Anche perché il risarcimento relativo alla lesione di diritti fondamentali della persona non è sottoposto alla cosiddetta condizione di reciprocità di cui all’articolo 16 delle preleggi (vedasi il precedente costituito dalla sentenza nr. 8.212 della Corte di Cassazione pubblicata il 4 aprile del 2013).

Veniamo ora all’altra interessante questione trattata dagli ermellini e cioè la violazione degli articoli 2043, 2059, 2727 del codice civile nonché degli articoli 115 e 116 del codice di procedura civile operata dalla Corte d’Appello di Milano nel momento in cui detta Corte aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale proposta dalla madre e dai fratelli della vittima.

Anche in questo caso, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso sulla base di due motivazioni ineccepibili: da una parte, il fatto che l’esistenza di un vincolo affettivo è una conseguenza desumibile presuntivamente della esistenza del rapporto di filiazione o di fratellanza e, in quanto tale, può essere provata semplicemente attraverso l’applicazione della prova presuntiva di cui all’articolo 2727 del codice civile; dall’altra parte, il fatto che l’esistenza di un vincolo affettivo non può mettersi in discussione quando essa non sia stata contestata dal convenuto (in questo caso dalla compagnia di assicurazione) che addirittura (nella fattispecie) l’aveva pure ammessa.

La Corte enuncia un principio di basilare importanza che mette la parola fine sulla deprecabile abitudine di molti giudici di merito di negare la sussistenza di un vincolo affettivo e la conseguente insorgenza di un dolore (connesso all’interruzione di quel vincolo) semplicemente perché gli attori i quali lo reclamano non provano l’ovvio: e cioè il legame d’affezione intercorrente tra il soggetto deceduto e quelli sopravvissuti.

La Corte, in particolare, specifica che – nel caso di morte di prossimo congiunto (sia esso coniuge, genitore, figlio, fratello) –  l’esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l’id quod qualunque accidit, la sofferenza del familiare superstite. Per quanto si tratti di una presumptio hominis, e cioè di una presunzione semplice,  essa deve comunque essere applicata. Quindi è vero che il convenuto avrà l’opportunità di provare esistenza di circostanze ostative all’applicazione di tale presunzione, ma è altrettanto vero che – laddove egli non lo faccia – allora la presunzione dovrà necessariamente “scattare” e conseguentemente il rapporto d’affetto dovrà considerarsi comprovato. E la sua lesione dovrà essere risarcita. In altri termini, evidenziano i giudici di legittimità, non spettava alla madre e ai fratelli della vittima dimostrare di aver sofferto per la morte del rispettivo figlio o fratello, ma semmai era onere dei convenuti dimostrare che – ad onta del rapporto di parentela – la morte della vittima principale non aveva cagionato alcun pregiudizio morale in capo ai prossimi congiunti lasciandoli indifferenti di fronte a quel lutto.

Interessante come la Cassazione, nel caso che ci riguarda, abbia aggiunto ad colorandum alcune considerazioni di carattere letterario, anzichè squisitamente giuridico, onde avvalorare una circostanza che dovrebbe essere auto-evidente a qualsiasi persona di buon senso. Ci riferiamo, in particolare, al richiamo di taluni episodi appartenenti alla storia, alla letteratura o al mito (come, ad esempio, il carteggio tra il filosofo medievale Abelardo e la sua amata Eloisa, alle lettere dei condannati a morte della resistenza, al mito di Penelope e Ulisse) tutti idonei a dimostrare inequivocabilmente come la lontananza geografica tra due soggetti non debba necessariamente ridurre l’intensità del vincolo affettivo, ma contribuisca molto spesso a ingenerare un effetto contrario: cioè quello di rendere ancor più forte il vincolo, e  quindi struggente la nostalgia legata all’assenza.

Ecco, di seguito, la massima in cui si compendia la pronuncia: “L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex articolo 2727 del codice civile, una conseguente sofferenza morale in capo ai

genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevandone né che la vittima e il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere convenuto provare che vittime superstiti fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo”.

Avv. Francesco Carraro

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