Il risarcimento ai prossimi congiunti di un macroleso

Un’interessantissima sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, la n. 12.470 del 18.05.17, ha affrontato con piglio decisamente innovativo la problematica dei cosiddetti danni riflessi dei prossimi congiunti di soggetto macroleso.

In proposito, si è consolidata ormai da qualche anno – nella giurisprudenza di merito e di legittimità – la convinzione che meriti accoglienza, ove adeguatamente allegata e dimostrata, non solo la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale dei prossimi congiunti di un soggetto deceduto, ma anche quella dei parenti stretti di una persona la quale abbia riportato lesioni gravissime seppur non esitate in un infausto e mortale destino.

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Il sinistro mortale e la prova ‘impossibile’ del danno non patrimoniale dei prossimi congiunti

È  degna di segnalazione un sentenza del Tribunale di Macerata, la nr. 498/18 pubblicata il 26.04.18 e relativa a un caso di infortunio mortale sul lavoro. Gli attori erano il padre, la madre, la sorella e le due nonne della vittima e chiedevano un risarcimento pari al massimo tabellare secondo i criteri meneghini (euro 327.990 per quanto riguarda i genitori ed euro 142.420 per quanto riguarda la sorella e le due nonne). Gli attori agivano anche per ottenete il danno catastrofale, o da lucida agonia, patito dalla vittima primaria e ad essi spettante iure hereditario per le sofferenze coscienti patite dall’infortunato nelle more tra l’accadimento lesivo e il decesso.

Il tribunale ha valorizzato, in sede di entificazione del risarcimento del pregiudizio patito dai prossimi congiunti, la giovane età della vittima (trentunenne) e le circostanze cruente del suo improvviso decesso. Il giudice ha altresì desunto, in via presuntiva, la saldezza del legame dei genitori e del figlio dal fatto che essi convivevano sotto lo stesso tetto e dalla circostanza (da ritenersi pacifica ove non specificamente contestata) dell’intrinseca naturalità dei rapporti familiari.

Non solo: il papà aveva solo sessant’anni al momento dell’incidente ed era quindi stato ex abrupto privato della possibilità di far riferimento e affidamento sulle cure del figlio in vista della vecchiaia. Tali elementi sono stati considerati idonei a giustificare una liquidazione secondo i massimi tabellari. Per quanto concerne la mamma, nonostante non convivesse con il figlio (a causa di un’intervenuta separazione tra marito e moglie), il tribunale ha ritenuto di non potersi disconoscere una somma di pari importo in ragione del fatto che si trattava dell’unico figlio e quindi dell’unica presenza su cui la donna avrebbe potuto contare nella parte terminale della propria esistenza.

La nonna paterna, invece, è stata risarcita con una somma superiore al minimo delle tabelle milanesi, ma inferiore al massimo. L’importo, pari a 50.000,00 euro, è stato motivato con la circostanza che l’anziana conviveva con il nipote e, nonostante la sua età avanzata (84 anni), si era trovata nella disperante e innaturale condizione di dover sopravvivere all’amato e giovane nipote. Alla nonna materna sono stati riconosciuti 24.020 euro, stante la non convivenza con il nipote e in mancanza di specifici elementi idonei a dimostrare una particolare saldezza del legame parentale. Idem dicasi per quanto riguarda la sorella che non risultava aver mai convissuto con il fratello e, rispetto alla quale, nulla era stato specificamente dimostrato con riguardo alla peculiare intimità del loro rapporto.

I ragionamenti del tribunale marchigiano sono interessanti per due ragioni.

Da un lato, va apprezzato il buon senso dimostrato dal giudicante nel considerare –  per così dire e in un certo qual modo –  intrinseco al rapporto di convivenza anagraficamente dimostrato, il dolore patito dai prossimi congiunti. Con ciò rifuggendo da quell’assurda pretesa (che, troppo spesso,  trova albergo in sede  giudiziaria) di accollare sulle vittime che agiscono per ottenere un risarcimento l’onere di dimostrare l’indimostrabile: vale a dire il ‘male’,  profondo e inestinguibile, che affligge necessariamente chi sopravvive a un lutto fatale.

Tale situazione va, a tutti gli effetti e una volta per tutte, considerata alla stregua di un dato di comune esperienza empiricamente condivisibile da qualsiasi essere umano normodotato (e cioè discretamente munito di quella intelligenza emotiva che contraddistingue l’uomo in quanto tale).

Va quindi reputata semplicemente offensiva del common sense, e della logica ordinaria, la pretesa di corroborare da un punto di vista istruttorio un dato eminentemente immateriale, intangibile e non adeguatamente sperimentabile (se non da chi, nel caso concreto, ha l’anima straziata) quale l’angoscia conseguente all’irrimediabile fine di un proprio caro.

D’altro canto, la sentenza ci offre il destro per mettere in luce un paradosso che riguarda non già e non tanto la dimensione squisitamente morale del danno  non patrimoniale patito dai prossimi congiunti di in soggetto deceduto, quanto piuttosto la dimensione esistenziale dello stesso. Quel “non poter fare più assieme” in cui la compromissione di carattere esistenziale si sostanzia.

È  del tutto ovvio che sarà onere dei legali incaricati della difesa delle vittime proporre all’attenzione del giudice, in via istruttoria, tutti quei mezzi  di prova di carattere orale o documentale (testimoni, memoriali, report autobiografici, dossier fotografici, supporti video) attraverso i quali conferire consistenza, e cioè “carne e sangue”, a storie e biografie destinate altrimenti a restare confinate negli asfittici limiti della burocrazia contabile forense. E tuttavia, va anche denunciato che gli avvocati nulla possono di fronte a una corte che non consenta di dare ingresso alle prove di cui sopra. Purtroppo, è prassi abbastanza diffusa, da parte dei magistrati, quella di sfrondare, per non dire decimare, le istanze istruttorie formulate da chi ha il penoso compito di mettere a disposizione delle toghe giudicanti il materiale indispensabile per quantificare in modo dignitoso e sufficiente (nei limiti dei paletti imposti dalla legge e dalla prassi) un incalcolabile pregiudizio: quello di chi è condannato, per effetto di un preverso destino, a convivere con l’incolmabile vuoto rappresentato dal venir meno della consolante, abitudinaria presenza del proprio amico, compagno, parente.

Da ultimo, per quanto riguarda il danno catastrofale, il Tribunale di Macerata lo qualifica alla stregua di un danno morale soggettivo da allocarsi nella categoria dei ‘danni conseguenza’ che richiede l’accertamento e la prova della cosciente, lucida percezione – da parte della vittima –  della ineluttabilità della propria fine.

Il giudice ha ritenuto raggiunta tale prova giacchè i colleghi dell’infortunato, presenti al momento del sinistro, avevano confermato che l’uomo si era trovato a “trascorrere i propri ultimi istanti con il volto rivolto verso l’alto e un carrello elevatore schiacciato sul torace”, in stato vigile, sebbene  per soli venti minuti prima della morte. Per tale sofferenza è stata riconosciuta la somma di euro 10.000.

Ora, non sappiamo se vi sia un bene sufficiente a risarcire una simile agonia. Di certo, non è accettabile che essa sia surrogata in un importo svilito, come nel caso di specie, dall’avere (la cifra liquidata) i connotati di un indennizzo meramente simbolico.

Francesco Carraro

www.avvocatocarraro.it