Così è anche se non vi pare: una CTU condivisa da tutte le parti non vale come prova

Vi sono dei provvedimenti, di origine normativa o giurisprudenziale, di cui si può dire che “si sentiva la mancanza”. Essi intervengono a colmare una lacuna dell’ordinamento giuridico con il licenziare, magari, un testo legislativo da tempo invocato dagli operatori del settore; oppure, con l’emanare una pronuncia in grado di fungere da “bussola per i naviganti”. Insomma, parliamo di contributi volti a coadiuvare sia gli avvocati sia i giudici nei loro sforzi – profusi da fronti e con finalità differenti – miranti a un “punto di caduta” processuale il più possibile affine a quel concetto (pur umanamente inattingibile) che va sotto il nome impegnativo di giustizia.

Vi sono, per contro, dei provvedimenti di cui non si sentiva assolutamente la mancanza in quanto i medesimi si muovono nella direzione di una non richiesta, e non necessaria, complessificazione di un sistema (qual è l’ordinamento giuridico sostanziale e/o processuale italiano) che, già di suo, non brilla per chiarezza e semplicità. In tale ultima categoria è annoverabile, a tutti gli effetti, una recente ordinanza del Tribunale di Velletri resa sulle istanze istruttorie formulate dalle parti in una causa di merito relativa a malpractice medico-legale.

Nel caso di specie, il procedimento era stato preceduto da una CTU effettuata in sede di ricorso ex art. 696 bis c.p.c. all’esito della quale il consulente incaricato dal giudice, dopo discussione collegiale con i consulenti di parte, concordava sia sulla sussistenza di una responsabilità in capo alla struttura sanitaria convenuta sia sulla entificazione del danno biologico conseguente, in una misura non inferiore al 38%.

Mai causa civile fu meglio indirizzata – verrebbe da sottolineare! Quantomeno alla luce della già espletata CTU che (sia pure nell’ambito del prodromico procedimento di accertamento tecnico preventivo, oggi reso addirittura obbligatorio dalla legge Gelli) fugava ogni dubbio rispetto ai punti salienti e dirimenti del contendere.

Vero è che, tra le parti, non era intervenuta una conciliazione. Altrettanto vero, però, che le conclusioni cui era pervenuto il CTU erano frutto non solo della meditata attività di un consulente super partes, ma anche e addirittura, di una condivisione, palesata dai consulenti delle parti contrapposte, rispetto ai contorni essenziali della vicenda.

In altri termini, per dirla in gergo forense, trattavasi di una tipica situazione “pacifica e incontestata” così in punto an come in punto quantum. E invece no. Il Tribunale di Velletri, con l’ordinanza che qui si commenta del 25.05.2017, riteneva opportuno disporre una nuova CTU medico-legale con un diverso consulente, allo scopo di approfondire ex novo il caso sia sotto il profilo della responsabilità che sotto quello del dimensionamento del danno biologico.

Ora, prescindiamo pure dalle più ovvie e incalzanti considerazioni attinenti alla cosiddetta “economia processuale” che rendevano, con tutta evidenza, superfluo (perché costoso e defatigatorio) l’espletamento di una ulteriore CTU. Se non altro perché ci si trovava ad affrontare una fattispecie in cui le circostanze del caso concreto – per così dire – “parlavano da sé”, tanto da far convergere tutti i consulenti (quello d’ufficio, quello di parte e quello di controparte) intorno alle medesime conclusioni.

Ci preme criticare, invece, l’ordinanza sotto il profilo squisitamente giuridico per dimostrare come la stessa, soprattutto sotto questo aspetto, non regga a un serrato esame. In primis, il tribunale laziale sostiene che la consulenza preventiva prevista dall’art. 696 bis c.p.c. non sarebbe atta a “a costituire la prova, prima del processo ed in vista del processo” come invece è a tutti gli effetti l’accertamento tecnico preventivo “tradizionale” di cui all’696 c.p.c.

Il ragionamento del giudicante ruota intorno al concetto, tipico del rimedio di cui alla norma testé richiamata, di periculum in mora (e cioè il rischio che il ritardo nell’assunzione della prova pregiudichi la possibilità di costituire la medesima nel corso del processo). Questo requisito è inderogabile, in quanto normativamente previsto, nel caso dell’art. 696 c.p.c., mentre da esso si può tranquillamente prescindere in base al dettato dell’art. 696 bis cpc. Ciò starebbe a significare una sola cosa, a dire del Tribunale di Velletri: poiché l’art. 696 bis c.p.c. consente l’accertamento tecnico preventivo anche in assenza di ragioni cautelari, di conseguenza l’accertamento disciplinato dal prefato articolo del codice di procedura non può valere come mezzo di prova.

Il sillogismo è bizzarro quanto infondato. Infatti, da alcuna norma del diritto positivo si ricava il principio, enucleato nell’ordinanza in commento, secondo il quale solo la perizia espletata per ragioni di urgenza meriterebbe di assurgere a strumento di prova o di integrazione della cognizione del giudice nel processo di merito.

In verità, ciò che connota la suscettibilità della relazione peritale (in questo caso, medico-legale) resa in sede di consulenza tecnica preventiva, di recare seco le stimmate dello strumento di prova e/o di integrazione della cognizione curiale non risiede nel connotato accessorio dell’urgenza, bensì in quello fondamentale di rappresentare una “consulenza tecnica”. Orbene, che l’elaborato reso in sede di procedura di accertamento preventivo finalizzato alla conciliazione costituisca una “consulenza tecnica” lo afferma a chiare lettere proprio l’articolo 696 bis c.p.c.; e non solo una volta, ma addirittura due (e cioè sia nella rubrica sia nel corpo del testo della norma).

Di più: è tale la pregnanza che il legislatore ha inteso riconoscere alla perizia redatta da un CTU nel procedimento de quo, da averle riconosciuto persino, nel terzo comma, l’efficacia di titolo esecutivo laddove le parti si siamo conciliate. Nel caso che ci occupa, le parti non si erano conciliate sulla monetizzazione del risarcimento, ma su tutto il resto assolutamente sì. Era troppo chiedere che il processo di merito, instaurato dopo il fallimento delle trattative, si basasse sulle conclusioni della CTU rese in ATP anziché essere gravato da un ultroneo, in quanto costoso e inutile, incombente?

Un ultimo rilievo: l’ordinanza rinviene un ulteriore motivo per negare una seria valenza “probatoria” alla CTU resa in sede di procedimento ex art. 696 bis c.p.c. nel fatto che l’ultimo comma del 696 bis rinvia espressamente agli artt. da 191 a 197 c.p.c. e non, invece, all’art. 201 disciplinante la figura del consulente tecnico di parte. Ciò starebbe a significare, secondo il Tribunale di Velletri, che mancherebbe, nel procedimento di accertamento di ATP finalizzato alla conciliazione, la previsione di quello “strumento” (costituito, per l’appunto, dalla possibilità di nominare un consulente di parte) in grado di salvaguardare il principio del contradditorio anche in ambito di operazioni peritali.

A tal proposito, sono sufficienti due rilievi per smentire la tesi: da un lato, il fatto che l’art. 696 bis c.p.c. richiama gli artt. da 191 a 197 “in quanto compatibili”, ma non esclude affatto la facoltà delle parti di nominare i propri consulenti in ossequio a quanto previsto dall’art. 201 c.p.c.; dall’altro, la circostanza che l’art. 696 bis c.p.c. è inserito nella sezione quarta (del capo terzo del titolo primo del libro quarto) del codice di procedura civile rubricata “Dei procedimento di istruzione preventiva”. Ergo, la sua stessa collocazione sistematica contribuisce a conferire al rimedio di cui trattasi, lo status e la dignità, in sede istruttoria, delle altre procedure consimili. Senza contare che, nella vicenda in esame, le parti avevano ben nominato un consulente e quindi il contraddittorio era stato, de facto, e a prescindere da ogni bizantinismo giuridico, garantito.

In conclusione, e onde tornare allo spunto da cui abbiamo preso le mosse, lo ribadiamo: un provvedimento di cui non si sentiva il bisogno e che, ci auguriamo, resterà confinato nel rango delle proverbiali eccezioni, sia pur non lodevoli.

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