Compensatio lucri cum damno: il regalo della Cassazione alle compagnie di assicurazione

La sentenza che ha avuto maggiore impatto mediatico – fra quelle gemelle del 22.05.2018 delle Sezioni Unite della Cassazione –  è la numero 12.565  che riguarda la sciagura aerea di Ustica del 27 giugno 1980.

Trattasi, come noto, di un evento drammatico che ha segnato la storia d’Italia e che non è ancora approdato a una credibile verità, né storica né penale, circa la sua matrice e gli effettivi responsabili.

Per quanto di interesse del presente commento, ci limitiamo a rammentare la genesi della vicenda processuale conclusasi con la sentenza di cui stiamo parlando.

La società Aerolinee Itavia Spa aveva convenuto in giudizio il Ministero della Difesa, il Ministero dei Trasporti e il Ministero dell’Interno per sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti, per effetto della distruzione dell’aereo e della conseguente crisi economica e finanziaria in cui era precipitata la società titolare dell’apparecchio esploso in volo.

Dopo alterne vicissitudini processuali e diverse sentenze di primo e di secondo grado e di legittimità, nel 2013 la Corte d’appello di Roma  aveva condannato il Ministero della Difesa e dei Trasporti  al risarcimento del danno patito dalla Itavia  fatta eccezione per quello da perdita dell’aereo giacchè la società attrice aveva già ottenuto un indennizzo dalla propria compagnia di assicurazione di circa 3 miliardi e 800 milioni di lire (a fronte di un danno stimato di circa 1,5 miliardi di lire).

Con la pronuncia che ci troviamo oggi a commentare, la Corte di Cassazione si è chiesta se debba o meno farsi applicazione, nel caso de quo, del principio della compensatio lucri cum damno.

Preliminarmente, gli Ermellini hanno sottolineato come alla Corte di Cassazione non spetti il compito di enunciare principi connotati da generalità o astrattezza né verità dogmatiche, in punto di diritto, ma semmai competa quella funzione nomofilattica (applicata al caso concreto) che si ricava anche dalla lettura dell’art. 363 del codice di procedura civile.

Faro ispiratore dell’arresto in questione è il principio indennitario (autentico cuore pulsante dell’intero comparto assicurativo) secondo il quale il danneggiato non può trarre ingiusto profitto da un evento dannoso: il risarcimento, cioè, deve coprire tutto il danno senza però oltrepassarlo.

Secondo la Corte, la compensatio opera sempre e comunque quando vi sia una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito, obbligato in quanto tale al risarcimento, e il soggetto tenuto per legge a erogare un beneficio al danneggiato. Tipico, in tal senso, è il caso dell’indennizzo previsto ex lege 210-92 per le vittime di trasfusioni di sangue infetto o di vaccinazioni, le quali devono scomputare dal risarcimento chiesto allo Stato quanto lo Stato ha già loro erogato, a titolo di indennizzo, per effetto della prefata disposizione normativa.

Più complessa è la questione quando l’autore dell’illecito e l’erogatore della prestazione indennitaria sono soggetti differenti. In tali ipotesi, l’opinione prevalente in giurisprudenza, quantomeno fino alla nota sentenza Rossetti del 2014, era che non dovesse esservi alcuno scomputo (e quindi non dovesse trovare applicazione la categoria della compensatio) quando il titolo,  in forza del quale ciascuno dei due soggetti “metteva mano alla borsa”, era diverso. Paradigmatico, in tal senso, il caso della vittima di un sinistro che si trovi a chiedere ed ottenere il risarcimento del danno al terzo responsabile dell’evento lesivo nonché, in aggiunta, l’indennizzo all’assicuratore con il quale essa abbia, per ipotesi, stipulato una polizza di assicurazione contro i danni. In una circostanza consimile, è evidente la disomogeneità dei titoli fondativi del credito: da un lato, il fatto illecito altrui, dall’altro il contratto in essere con una compagnia.

Ebbene, le Sezioni Unite mettono definitivamente in congedo tale soluzione ermeneutica, ritenendo che il mero criterio dell’identità, o meno, del titolo generativo del risarcimento e dell’indennizzo non sia sufficiente a condurre a una soluzione legittima, e soprattutto equa, della tematica in discussione. Quindi, gli Ermellini censurano l’idea secondo cui la diversità dei titoli delle obbligazioni costituisca una  causa giustificativa credibile delle diverse attribuzioni patrimoniali.

Qual è allora il criterio suggerito dai giudici del Palazzaccio? Esso chiama in causa non tanto il titolo giustificativo dell’erogazione patrimoniale, quanto piuttosto la categoria della “funzione” di cui il beneficio ricavato dalla vittima (collateralmente e contemporaneamente al danno) sia espressione.

L’interprete dovrà, in altre parole, accertare se tale beneficio sia compatibile, oppure no, con una funzione di carattere compensativo (com’è, tipicamente, quella del risarcimento) e quindi, per conseguenza, se tale beneficio possa, a buon diritto, imputarsi al risarcimento.

Bisognerà, dunque, domandarsi se il vantaggio in discussione sia riconducibile a una finalità di rimozione delle conseguenze pregiudizievoli dell’illecito.

Cessa, pertanto, di avere rilievo la questione della coincidenza formale dei titoli generativi –  rispettivamente – del detrimento e del lucro. Acquista, per converso, un’importanza decisiva il collegamento funzionale tra il fattore causativo della erogazione patrimoniale e l’obbligo risarcitorio. Di talché, diviene dirimente appurare la funzione specifica espletata dal vantaggio potenzialmente destinato a cumularsi (piuttosto che no) con il risarcimento.

Per esempio, nei casi di assicurazione sulla vita, l’indennità erogata da un’assicurazione potrà senza dubbio cumularsi con il risarcimento (chiesto ai – e ottenuto dai – responsabili dell’illecito) perché l’indennità è il corrispettivo di una forma di risparmio posta in essere dal beneficiario della stessa tramite il versamento dei premi e quindi esula da una funzione compensativa assimilabile a quella propria di ogni genere di risarcimento.

Lo stesso non si può sostenere, secondo la Cassazione, per le polizze infortuni. Infatti, in tal caso il pagamento dei premi non è in rapporto di sinallagmaticità funzionale con la prestazione dell’indennità. Piuttosto, i premi sono collegati con il trasferimento del rischio. E quindi, la prestazione patrimoniale (indennizzo) erogata dalla compagnia di turno, al verificarsi del fatto storico, ha una funzione classicamente compensativa (e quindi non cumulabile) con la medesima funzione espletata dal risarcimento: l’uno va, perciò, scomputato dall’altro.

Un ultimo aspetto affrontato dalla Cassazione concerne il tema della surroga a favore dell’assicuratore, prevista dall’art. 1916 cc.

In base al vecchio orientamento, tale surrogazione dell’assicuratore, nei diritti dell’assicurato danneggiato, avveniva solo se – e nella misura e nel momento in cui – l’impresa decideva di giovarsi del diritto di surroga. Ergo, la surrogazione non operava quando l’impresa decideva (magari ab origine, nel momento esatto della stipula della polizza, come accade di regola) di rinunciare a tale prerogativa.

Secondo, invece, la nuova impostazione (suggerita dalla sentenza in commento), la surrogazione opera automaticamente con il verificarsi del fatto oggettivo del pagamento dell’indennità, senza che vi sia necessità del presupposto soggettivo della comunicazione (indirizzata dall’assicuratore al terzo responsabile) di avere pagato e di volersi surrogare al proprio assicurato. Opinare altrimenti significherebbe avallare quell’erratico percorso (già precedentemente seguito dai giudici italiani) che conduceva al distorsivo effetto di permettere alla vittima di un sinistro di cumulare due erogazioni pecuniarie (risarcimento e indennizzo, appunto) aventi la medesima funzione compensativa del danno.

Per contro, la soluzione per cui si schierano oggi i giudici della Suprema Corte, da un canto permette all’assicuratore di recuperare aliunde quanto pagato all’assicurato danneggiato, dall’altro impedisce a quest’ultimo di lucrare, sul medesimo danno, indennità e risarcimento conseguendo così per due volte la riparazione dello stesso pregiudizio.

Per giustificare tali conclusioni, la Cassazione si rifà alla lettera dell’art. 1916 c.c. che collega il prodursi della vicenda successoria, in automatico, al pagamento dell’indennità assicurativa e non certo al discrezionale apprezzamento del solvens. Così – concludono i giudici di legittimità – poiché nel sistema dell’art. 1916 c.c., è con il pagamento dell’indennità assicurativa che i diritti contro il terzo si trasferiscono, ope legis, all’assicuratore, deve escludersi un ri-trasferimento o un rimbalzo di tali diritti all’assicurato per il solo fatto che l’assicuratore  si astenga dall’esercitarli.

Per parte nostra, riteniamo che la pronuncia in commento costituisca, in realtà – e tanto per restare in tema di lucro e di danno – un lucro straordinario per le compagnie del settore e un danno incalcolabile per i detentori di polizze di assicurazione destinati prossimamente, per sventura, a incappare in un qualche evento avverso. In proposito, sposiamo senz’altro quanto sostenuto dal Pubblico Ministero, nella requisitoria finale del processo civile di Ustica, laddove egli ha biasimato come irragionevole “il trattare allo stesso modo, sul piano risarcitorio, chi abbia e chi non abbia stipulato un rapporto assicurativo, con relativi oneri di pagamento del premio”.

Avv. Francesco Carraro

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