La ‘restaurazione’ dei criteri di ripartizione della prova in malasanità

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (nr. 24073 del 16.10.17) riporta in auge il tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità a proposito di responsabilità professionale medica e criteri di ripartizione dell’onere probatorio tra attore danneggiato, da un lato, e struttura sanitaria/medici convenuti, dall’altro.

Abbiamo parlato di ritorno “in auge” perchè una pronuncia altrettanto recente degli Ermellini del 26.07.2017, la nr. 18.392, aveva suscitato considerevoli perplessità tra gli operatori del diritto in quanto sembrava scalfire un indirizzo oramai consolidato da decenni.

Con la sentenza in commento, invece, la Suprema Corte ha ricondotto, per così dire, i termini della questione allo status quo ante, cioè alla situazione precedente all’inopinato revirement del mese scorso.

In buona sostanza, i giudici di legittimità non hanno fatto altro che ribadire concetti con i quali avevamo già da tempo avuto modo di familiarizzare ma di cui, per comodità del lettore, è opportuno qui fare un resumé. Per quanto riguarda il rapporto con la struttura e con i medici con i quali è intervenuto un apposito contratto (anche alla luce delle innovazioni della riforma “Gelli-Bianco” dell’aprile 2017) si parlerà di responsabilità contrattuale e l’onus probandi andrà così ripartito: all’attore (paziente danneggiato) compete la prova della sussistenza di una obbligazione in capo alla struttura convenuta (discendente da un “contratto di spedalità” e assai facile da fornire) nonché la prova del deterioramento delle proprie condizioni rispetto all’ingresso nel nosocomio o nella clinica nonché, infine, la prova del cosiddetto “inadempimento qualificato” dei medici. Con quest’ultima espressione si intende la sussistenza, perlomeno in astratto, di un nesso tra la condotta dei dottori (attiva od omissiva) e l’evento lesivo, tale per cui la prima è idonea, in ipotesi, a ingenerare il secondo.

Alla struttura convenuta, ovvero al medico, spetterà, invece, l’onere di provare che il contegno del sanitario o dei sanitari è stato ineccepibile ed esente da censure e che quindi, alcunchè può imputarsi ai medesimi a titolo di colpa.

Insomma, spetta ai convenuti il peso della dimostrazione della propria carenza di negligenza, imperizia, imprudenza, id est della verificazione dell’evento avverso a causa di un fattore imponderabile, imprevedibile e imprevenibile e, in quanto tale, sfuggente a una concreta possibilità di essere evitato da parte del medico.

Cogliamo l’occasione per ricordare come la legge Gelli abbia profondamente innovato la struttura portante dell’onere probatorio in tema di malasanità, riconfigurando in chiave aquiliana, anziché in chiave contrattuale, la scaturigine della responsabilità dei singoli medici (salvo eccezioni).

Deriva che l’architettura della cosiddetta inversione dell’onere della prova (tradizionalmente intesa nel senso recepito dalla sentenza oggi commentata) si applicherà solo nei confronti delle strutture sanitarie. I medici, invece, potranno beneficiare delle regole proprie della responsabilità extra-contrattuale con conseguente gravame dell’onere di provare la colpa (degli erogatori delle prestazioni) a carico del paziente danneggiato.

Rammentiamo, da ultimo, che in ambito penalistico il sanitario, laddove si veda accusato di imperizia, andrà scriminato in un caso: se riesca, cioè, a dimostrare di essersi uniformato alle linee guida del peculiare settore della medicina di cui risulti essersi occupato nella fattispecie concreta.

Avv. Francesco Carraro – www.avvocatocarraro.it

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