La “perdita” del danno da perdita della vita

Con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 15350/2015 depositata il 22 luglio del 2015 sembra che sia stata messa la parola ‘fine’ al dibattito, appassionante e foriero di risvolti di considerevole natura, non solo giuridica, apertosi in seguito all’arresto della celebre sentenza del 23 gennaio 2014 n. 1361.

Come noto, tale pronuncia aveva capovolto un consolidato orientamento giurisprudenziale (sia di merito che di legittimità) interrotto solo da rare sentenze di segno contrario. Tale orientamento negava nel modo più fermo la risarcibilità iure hereditatis del danno derivante dalla perdita della vita della vittima di un incidente stradale deceduta immediatamente dopo le lesioni riportate.

La giurisprudenza maggioritaria infatti, si era orientata nel senso di ritenere risarcibile solo il c.d. danno biologico terminale allorquando, tra l’evento dannoso e il decesso, fosse intercorso un apprezzabile lasso di tempo (cfr. Cass. civ. n. 26505/09, Cass. civ. n. 6946/07; Cass. civ. 7632/03; Cass. civ. n. 2775/03) ovvero il danno da lucida agonia quando la vittima fosse rimasta in vita anche per pochissime ore, purché in stato di consapevolezza dell’imminente esito infausto.

La giustificazione di tale opzione prendeva le mosse dalla distinzione tra diritto alla salute e diritto alla vita. Se il danno si sostanzia nelle conseguenze pregiudizievoli di un fatto illecito, dovrebbe essere negata la risarcibilità iure successionis della lesione del diritto alla vita di un congiunto, poiché la morte impedisce che la lesione si traduca in una perdita a carico della persona offesa. Infatti, con il venir meno dell’esistenza in vita della vittima del sinistro si estingue la personalità giuridica di quest’ultima e, quindi, anche la sua attitudine a divenire titolare di un qualsivoglia diritto, ivi compreso quello risarcitorio, trasmissibile agli eredi. In verità, anche prima della pronuncia della Cassazione del gennaio 2014 vi erano stati alcuni interessanti interventi, sia a livello giurisprudenziale che a livello dottrinario, che avevano per così dire, dissodato il terreno sul quale poi sono germogliati i semi della tesi favorevole alla trasmissibilità iure hereditario del diritto alla vita irrimediabilmente compromesso dall’esito letale dell’evento lesivo.

Ci riferiamo, per esempio, alle riflessioni contenute nella sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 15760/06 che parla di “danno da morte come perdita della integrità e delle speranze di vita biologica, in relazione alla lesione del diritto inviolabile della vita, tutelato dall’art. 2 Cost. (vedi espressamente Corte Costituzionale sentenza del 6 maggio 1985 n. 132) ed ora anche dagli artt. 11-62 Costituzione Europea, nel senso di diritto ad esistere, come chiaramente desumibile dalla lettera e dallo spirito della norma europea. La dottrina italiana ed europea, che riconoscono la tutela civile del diritto fondamentale della vita, premono per il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente come corrispettivo del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata. La certezza della morte, secondo le leggi nazionali ed europee è a prova scientifica ed attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule. La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni: la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche il danno da morte, come danno ingiusto da illecito, è trasferibile mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante ed i suoi solidali” e, ancora: “questa suggestiva problematica (…) tiene conto della Costituzione europea e del principio di prevalenza della fonte costituzionale europea (art. 1-6) che integra e completa la fonte italiana sul diritto alla vita (art. 2 Cost. e art. 3 Cost. comma 2, tra di loro correlati, essendo la vita la condizione esistenziale della espansione della persona umana)”.

Va anche ricordato che, in data 01 dicembre 2009, con la L. 130/08 l’Italia ratificava il Trattato di Lisbona rendendo immediatamente applicabile nel nostro ordinamento, con rango costituzionale, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in cui viene espressamente previsto il diritto alla vita (cfr. art. 2.1 CEDU “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”). Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cui sempre il Trattato di Lisbona ha conferito lo stesso valore giuridico dei Trattati dell’Unione Europea, attribuendo a tale documento una forza giuridica preminente sulle norme italiane con esso confliggenti (e conseguente disapplicazione delle norme nazionali in contrasto), prevede espressamente che “ogni individuo ha diritto alla vita” (articolo 2.1). Pure autorevole dottrina aveva avuto modo di criticare, in più occasioni, le tesi della giurisprudenza dominante: “Al fine di riconoscere il diritto al risarcimento del danno biologico iure hereditatis, appare anacronistico discettare su quanti giorni, minuti e ore si sia protratta la durata della vita della vittima e poi sull’entità del risarcimento parametrato alla residua durata della vita, liquidando il relativo danno rapportandolo ad un’invalidità totale, limitato al solo periodo di sopravvivenza, salvo qualche, purtroppo rara, significativa eccezione nella giurisprudenza di legittimità, distinguendo tra diritto alla vita che si estrinseca nella possibilità di esistenza futura e diritto all’integrità psico-fisica che presuppone l’esistenza in vita del soggetto leso, unico beneficiario e titolare del proprio benessere psicofisico” (Domenico Chindemi, I danni alla persona, Maggioli Editore, 2008). Tra le pronunce della giurisprudenza di merito, talune, isolate, avevano riconosciuto la risarcibilità del danno tanatologico (cfr. Tribunale di Venezia, sent. del 15.03.04, Tribunale di Venezia, sent. del 15.06.2009; in senso conforme: Tribunale di Venezia, sent. del 20.04.2009; Tribunale di Terni, sent. del 04.03.2008; Tribunale di Brindisi, sent. del 05.08.2002; Tribunale di Messina, sent. del 15.07.2002; Tribunale di Foggia, sent. del 28.06.2002). In tali sentenze i giudici manifestavano di non condividere la tesi che distingueva tra lesione del bene salute e lesione del bene vita e la distinzione tra morte immediata e morte sopravvenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo. Ebbene, con la sentenza delle Sezioni Unite viene fatta (in)giustizia di tutte queste meritorie pronunce con le quali la giurisprudenza aveva dimostrato il coraggio di individuare una “copertura giuridica” rispetto alla tutela del diritto in assoluto più importante che, altrimenti, rischiava di rimanere paradossalmente misconosciuto e privo di garanzie nel nostro sistema risarcitorio. In particolare, Le Sezioni Unite, trovano fondamento argomentativo alla loro decisione censoria nei confronti della tutela del diritto alla vita in una ‘secolare’ pronuncia delle medesime Sezioni Unite dell’anteguerra, risalente addirittura al 22 dicembre 1925, n. 3475 laddove si legge: “Se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare che presuppone, appunto e necessariamente, l’esistenza di un subbietto di diritto”.

La recentissima sentenza qui commentata ritiene, quindi, di dare continuità all’orientamento tradizionale così statuendo: “anche l’ampia motivazione della sentenza n. 1361 del 2014, che ha effettuato un consapevole revirement, dando luogo al contrasto in relazione al quale è stato chiesto l’intervento di queste Sezioni Unite, non contiene argomentazioni decisive per superare l’orientamento tradizionale. Il cuore del ragionamento delle Sezioni Unite può essere riassunto nella nota massima del filosofo Epicuro il quale, onde sminuire il minaccioso destino comune a tutti i mortali, affermava che l’uomo non deve temere la morte perché, se c’è lui non c’è la morte e, se c’è la morte, non c’è lui. In definitiva, le conclusioni cui pervengono gli Ermellini, con la sentenza in commento, non sembrano convincenti nè, soprattutto, eque. Essa, infatti, comporta il rischio concreto di negare agli eredi di un congiunto vittima di un evento letale quel risarcimento assicurato in presenza di altro evento meno grave perché produttivo di lesioni, cui segua a distanza di tempo il decesso della vittima, con il paradossale risultato che “uccidere è più conveniente che ferire”, in aperto contrasto con il fine deterrente, oltre che compensativo, del sistema risarcitorio quale configurato dal nostro ordinamento.

Ci sembra, quindi, opportuno riproporre, nonostante possa apparire paradossale dal punto di vista cronologico (in un’epoca storica in cui il nuovo prevale sempre sul vecchio), il cuore delle argomentazioni della pronuncia che, per qualche mese appena, aveva illuso gli operatori del diritto.

Ci riferiamo, ovviamente, alla già richiamata sentenza del 23 gennaio 2014 n. 1361, dove si leggeva: “è necessario allora mettere in discussione i nostri schemi tradizionali modificandone la struttura o forgiandone di nuovi perché le categorie non sono trovate dall’operatore giuridico, ma sono da lui (consapevolmente o inconsapevolmente) costruite in vista del caso pratico che si tratta di risolvere”.

La Corte mostrava di condividere l’assunto per cui, in un ordinamento in cui il diritto alla salute è definito dalla giurisprudenza come “situazione resistente a tutta oltranza” (Cass. S.U. del 06.10.79 n. 5172/79), sia impensabile che invece il diritto alla vita possa degradare ad una tutela meno penetrante e diretta, finendo in qualche modo per dipendere dalla garanzia del primo. Anche l’argomento dell’assenza della capacità giuridica in capo alla vittima era ritenuto carente laddove non considera che, al momento della lesione mortale, la medesima vittima è ancora in vita, ed è proprio in tale momento che acquista il diritto al risarcimento (principio corrispondente al brocardo ‘momentum mortis vitae tribuitur’). Del resto, anche la tesi dell’incedibilità e dell’intrasmissibilità del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in quanto strettamente personale è stata superata sia dalla nostra giurisprudenza (Cass. Civ. 22601/13) che nei sistemi di Common Law e di diritto continentale.

I Giudici estensori della pronuncia trovavano particolarmente suggestiva la tesi del danno da morte come danno collettivo subito, non già (o non soltanto) dal singolo individuo che la patisce, ma anche dalla società, al quale egli deve corrispondere un risarcimento capace (non solo sul versante delle sanzioni penali) di trasmettere ai consociati il disvalore dell’uccisione e la deterrenza della reazione dell’ordinamento.

Quanto all’obiezione secondo cui le Sezioni Unite del 2008 avrebbero affermato che solo il ‘danno conseguenza’ è risarcibile, ma non anche il danno evento, la Corte riconosceva che trattasi di un principio basilare della architettura argomentativa su cui poggia la rilettura sistematica delle Sezioni Unite del 2008. Onde per cui gli ermellini non ritennero opportuno un revirement ermeneutico sul punto perché avrebbe minato dalle fondamenta i principi enunciati dalle celebri pronunce gemelle di San Martino. Tuttavia, secondo la Corte, è possibile “argomentare alla stregua della logica interna di tale principio” ed è sufficiente, in proposito, ragionare in termini di eccezione alla regola: “giusta incontrastato dato di esperienza ogni principio ha invero le sue eccezioni”.

In altre parole, se la perdita della vita non ha, per antonomasia, conseguenze inter vivos per l’individuo che, appunto cessa di esistere, ciò non può e non deve significare che essa resti priva di conseguenze sul piano civilistico. Ergo, il ristoro del danno da perdita della vita costituisce una “ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei danni conseguenza”. La Corte concludeva che è proprio l’eccezione che vale a confermare la regola, evitando che la stessa risulti fallace, perché “negare alla vittima il ristoro per la perdita della propria vita significa determinare una situazione effettuale che in realtà rimorde alla coscienza sociale”.

Finiscono per essere quindi meri ‘escamotages interpretativi’ i concetti di “lasso di tempo non trascurabile” o “intensità della sofferenza”, laddove siano finalizzati a superare le iniquità scaturenti dalla negazione del risarcimento del danno da perdita della vita. La Corte aggiungeva che la perdita del bene vita è oggetto di un diritto assoluto e inviolabile che prescinde dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia avuto.

Ci sentiamo di sottoscrivere in toto il contenuto della pronuncia più antica, pur dovendo prendere doverosamente atto che lo stesso si avvia a diventare un reliquato inservibile alla luce del verdetto delle Sezioni Unite del luglio 2015. Purtroppo, non sempre ciò che è percepito come ‘giusto’ anche dal senso comune trova diritto di cittadinanza nelle aule di ‘giustizia’.

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